
In vista della proiezione de Il settimo sigillo, primo film della rassegna Il Dio nascosto, vi proponiamo – a mo’ di vademecum – un’introduzione al pensiero del suo regista, Ingmar Bergman (1918-2007). Non tutto sarà chiaro alla prima lettura, ma l’importante è cominciare col tenere a mente alcuni punti.
Di fronte all’opera bergmaniana, la prima impressione è questa: mentre l’umanità vagava sonnambula, Ingmar Bergman ha aperto gli occhi. E da quel risveglio non è mai più tornato indietro. Si è accorto di essere venuto al mondo, di aver fatto ingresso in quel singolare scenario che è l’esistenza, di essere a tu per tu con un imponente mistero. Da quel giorno, il grande mistero ed Ingmar hanno ingaggiato una lotta senza fine.
Il settimo sigillo
Da un lato, come il cavaliere de Il settimo sigillo (Sjunde inseglet, 1957), cioè come ogni cavaliere, Ingmar sente di aver ricevuto un’investitura, di esser parte della compagnia scelta del re, invitato alla sua tavola, simbolicamente eletto a stirpe regale. Il suo re lo ha voluto: ha voluto proprio lui, Ingmar. Dall’altro, il castello del grande sovrano sembra essere kafkianamente inaccessibile, il portone inesorabilmente serrato.
Il fatto è che la nascita di Ernst Ingmar Bergman ha avuto luogo in un’età di tenebra: tale gli appare il mondo in cui il destino ha voluto che lui facesse la sua comparsa. Ingmar non ha dubbi: la sorgente dell’oscurità in cui è nato è dovuta alla fine della relazione tra l’umanità e Dio, al crollo della quale non ha corrisposto affatto una riconquista della realtà terrena, né una riconquista di sé. Al contrario: sparito il mondo trascendente, anche quello terreno è divenuto uno sconosciuto, mentre gli uomini che lo abitano sono divenuti irriconoscibili a sé stessi. Perduta la relazione con Dio, è andata perduta, come se si trattasse di una triade indissolubile, anche quella con il mondo esterno e con quello interiore. Nebbie al di fuori, un buco nero al di dentro: le creature umane sono cadute in un limbo, dove, nell’assenza tanto del dialogo con l’esterno quanto di quello con l’interno, non è rimasta loro altra facoltà che il pensiero e l’agire meccanico, che non si cura della verità, ma conosce solo routine. Come detto nel film L’immagine allo specchio (Ansikte mot Ansikte, 1976), è nel mezzo di «un esercito di milioni di povere anime invalide, che si aggirano per il mondo chiamandosi con parole disperate senza riuscire a comprendersi, suscitando in noi terrore» che ad Ingmar è toccato vivere. Parole che sono quasi un’evocazione di Sera sul viale Karl Johan di Edvard Munch.
Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johan (1892)
Tale è l’impressione che Ingmar deve avere avuto delle persone attorno a lui: una comunità di morti viventi, il cui inerte avanzare, in fondo, è tutto ciò che la meccanica ha da offrire: un incedere in forza di impulsi. Ciò vuol dire che, sebbene qualcosa gli dica che c’è un re – il suo re – che lo attende, tutto il resto sembra urlare che il grande sovrano ha lasciato il suo regno: «Molte persone ritengono che Dio sia morto […]» si dice ne L’occhio del diavolo (Diävulens öga, 1960) «e che il male esplichi verso il mondo la stessa funzione meccanica delle altre leggi naturali».
L’occhio del diavolo
Non che il cavaliere Ingmar si dia per vinto e rinunci a mettersi sulle tracce del suo sire: ma aspettarsi indicazioni o compagni di viaggio dalla terra degli spettri, è quasi del tutto vano. Anzi, la loro inerzia è una porta aperta all’instaurazione dell’inferno. Che questo sia il destino dell’esistenza una volta che Dio abbia preso congedo da questa terra, lo mostra Il silenzio (Tystnaden, 1963), il cui titolo si riferisce al silenzio di Dio: le sorelle Anna ed Ester trascorrono diversi giorni nel chiuso di un albergo in un Paese straniero, l’una impegnata in cicliche relazioni sessuali, l’altra rinchiusa nella sua attività intellettuale. Istinto senza ragione l’una, intelletto disincarnato l’altra. Se, come afferma certa critica, le sorelle simboleggiano due componenti della stessa persona, ci troviamo di fronte ad una creatura scissa, il cui corpo e la cui mente (o il cui spirito) ruotano su sé stessi, separati l’uno dall’altra come dal mondo esterno, descritto come una terra straniera in cui comunicare con gli altri è quasi impossibile. E lungo le strade di questo territorio arcano e surreale viaggiano dei carrarmati: dalla guerra intra-personale, a quella inter-personale, a quella tra i popoli.
Il silenzio
Il limbo dell’esistenza meccanica è dunque il luogo in cui l’essere umano, lasciato a sé stesso, partorisce gli incubi peggiori, che propagano il male nel mondo. D’altronde, ne L’occhio del diavolo, proprio «il male» veniva citato quale espressione eminente di un meccanicismo all’opera, in atto anche nella storia di un altro film, La fontana della vergine (Jungfrukällan, 1960). E l’origine di tutto è sempre una: a fondamento di quell’abisso inesauribile che è il pensiero bergmaniano, sembrerebbe esserci, com’è stato da alcuni osservato, la saldatura tra crisi psicologica e crisi della metafisica, la prima quale conseguenza della seconda.
La fontana della vergine
Ciò significa, tra le altre cose, che per Ingmar l’Età della Tenebra – l’incubo in cui sente di vivere – non è affare del mondo che fu: pur non augurandosi un ritorno ad epoche lontane, Ingmar respinge, dopo averle attraversate, anche le moderne correnti di pensiero, che del buio lasciato dallo spegnimento del trascendente sono le figlie. É quanto emerge ne Il volto (Ansiktet, 1958), ambientato nell’Ottocento, dove il professor Vergérus ed Ottilia incarnano, rispettivamente, il positivismo e il romanticismo, mentre il burocratico e dispotico capo della polizia Starbeck potrebbe riferirsi tanto a ciò che resta dell’ancien régime, quanto – più probabilmente – all’autorità di uno Stato moderno.
Vergérus (a sinistra), Starbeck (al centro) e Ottilia (a destra) ne Il volto
In ogni caso, nessuno dei tre è in grado di consentire il ritorno alla concreta realtà della vita che, malgrado tutto, Ingmar vede ogni giorno stagliarsi dinanzi a sé, testarda. Anzi. Ne Il posto delle fragole (Smultronstället, 1957), Ingmar tenta un azzardo: «L’uomo moderno esiste solo nella sua fantasia» sostiene il giovane Anders.
Il posto delle fragole
Al limbo in cui sono sprofondati i singoli, si aggiunge quello dell’intera Storia umana: le vecchie risposte non bastano più, mentre le nuove non hanno ancora trovato la giusta strada. Procedere a ritroso è impossibile, ma se si prova ad avanzare, si è senza mappa: in altre parole, la nascita di Ingmar ha avuto luogo nell’anno zero.
Che anche in mezzo agli uomini del passato pre-moderno Ingmar fatichi a trovar dimora, lo testimonia il cavaliere suo alter-ego, Antonius Block (Il settimo sigillo): lugubri flagellazioni penitenziali, la condanna a morte di una presunta strega, sacerdoti che speculano sul terrore della pestilenza… la descrizione della realtà in cui Antonius vive è impietosa quanto basta. Il meno peggio sono gli artisti di strada, innocui ma perlopiù indifferenti al destino ultimo.
Antonius Block
Ma Antonius-Ingmar è di ben altra stoffa: «Vorrei confessarmi, ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Vedo vuoto, come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili e vi scorgo immagini di incubo, nate dai miei sogni e dalle mie fantasie […]. É l’ignoto che mi atterrisce […], che sia impossibile sapere. Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? […] Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me seppure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua ad essere uno struggente richiamo del quale non riesco a liberarmi? Io voglio sapere, senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza. Voglio che Iddio mi tenda la mano, che scopra il suo volto nascosto e che mi parli». Poche parole riescono a riassumere il tormento di Ingmar meglio di queste, che citano in un colpo solo la triplice relazione andata perduta: il «vuoto» dentro di sé, i propri simili divenuti «irriconoscibili», l’incomprensibilità di Dio. «Il suo silenzio non ti parla?» si sente rispondere Antonius: più volte Ingmar sembra accarezzare l’ipotesi di Søren Kierkegaard, che tentò un salto diretto dal dubbio alla fede, di saldare l’uno all’altra in una paradossale «angosciosa certezza». Ma, in fondo, non se ne capacita: possibile che Dio sia sempre e solo un Dio nascosto, un Deus absconditus? Ironia della sorte – o di Dio –, se c’è un “trascendente” che invece appare, che non disdegna di fare ingresso nel mondo reale, è la Morte.
La Morte ne Il settimo sigillo
A complicare le cose, c’è anche il fatto che quel re-Dio che gli ha posato una spada sulla spalla, sembrava fosse, proprio per questo suo gesto, Dio-Amore: così, perlomeno, gli era stato insegnato. Eppure suo padre Erik, pastore luterano, gli ha lasciato tutt’altra impressione: se quel padre voleva essere un testimone del divino perduto, a quel divino, purtroppo, non ha fatto una gran pubblicità. «Perché [Dio] continua a vivere in me seppure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore?» dice infatti Antonius. «Umiliante» è la (dolorosa) parola chiave con cui Ingmar descrive l’atteggiamento del padre nei suoi confronti. Perciò, al problema dell’esistenza o meno di Dio, si aggiunge quello – coevo al tramonto della trascendenza – della sua teodicea: Dio è buono oppure no? Ha il volto di Erik Bergman o un altro?
Erik Bergman
C’è un solo faro in grado, col suo raggio, di fendere l’oscurità e illuminarne una parte. Per la verità, si tratta di una lanterna, dalla gittata e diametro decisamente meno lunghi: la lanterna magica, illustre antenata del cinema e fedele amica d’infanzia del nostro. E nel suo cinema-lanterna, Ingmar si è portato appresso tutti coloro che, come lui e prima di lui, sono stati ridestati dal mondo dei dormienti: Amleto (il cui monologo risuona in quello di Antonius e non solo), Munch (il cui grido di fronte alla scoperta dell’essere risuona ancora oggi), Kafka (che al castello chiuso del re ha bussato per tutta la vita) e mille altre persone, che hanno tutte trovato un posto nella sua anima senza fondo.
Il monologo di Antonius
Ma come mai proprio la lanterna magica? Come mai proprio la creazione di immagini? Perché Ingmar ha scelto proprio i film? A prima vista, sembrerebbe che lui stesso consideri la sua arte una fuga dalla realtà: ma i conti non tornano. Piuttosto, si direbbe che, fin da ragazzino, abbia sentito l’urgenza di mettere sé stesso in custodia, di ritagliarsi un recinto protetto in cui coltivare il proprio mondo interiore, al sicuro non dalla realtà in quanto tale, ma da certe minacce provenienti dai morenti (e da suo padre). Tale dev’essere stato lo spavento suscitato in lui dal pastore Erik: che lui, il piccolo Ingmar, precocemente chiamato dal destino, venisse imprigionato, avvilito e ucciso, come ben testimonia il giovanissimo Alexander in Fanny e Alexander (Fanny och Alexander, 1982). A giudicare dalle opere che ha in seguito realizzato, il piano di Ingmar-Alexander doveva essere quello di mettere in sicurezza il suo tesoro per restituirlo al mondo una volta cresciuto.
Alexander in Fanny e Alexander
La lanterna-cinema è dunque lo scrigno di un mondo interiore entrato in contatto col trascendente, due territori che il cinema, si direbbe per proprietà intrinseca, sa bene come dipingere. Non a caso, Ingmar ha trovato a sé congegnali quei registi, primo fra tutti Andrej Tarkovskij, che alla concatenazione delle immagini secondo una logica narrativa, preferiscono i salti apparentemente senza criterio della vita inconscia o del sogno: «Quando un film non è un semplice documento, è un sogno […]. Ecco perché Tarkovskij è il più grande di tutti. Si muove con tale naturalezza nella stanza dei sogni […]. Per tutta la mia vita ho bussato alle porte delle stanze in cui egli si muove con tanta naturalezza» (Ingmar Bergman, Lanterna magica, 1987).
Andrej Tarkovskij (1932-1986)
È paradossale: nel raccontare il suo risveglio, Ingmar si serve della lingua dei sogni. D’altronde, se davvero il pilastro del suo pensiero è il nesso tra crisi psicologica e crisi metafisica, se interiorità e divinità sono connesse, ogni messaggio che proviene dal profondo dell’io è anche, in qualche misura, un messaggio divino. La voce dell’io e la voce di Dio sono legate a doppio filo: bussare alla porta dei sogni non è disgiunto (anche se non identico) dal bussare alla porta di Dio. Il sogno è fatto per parlare all’uomo sveglio: è il «luogo in cui è possibile dirsi cose a cui da svegli, per un motivo o per l’altro, non siamo in grado di dare ascolto» (Il posto delle fragole).
Una sequenza onirica ne Il posto delle fragole
Cose che, al risveglio, spesso lasciano ad Ingmar la malinconia dolceamara di chi ha appena ricevuto un messaggio doloroso e liberatorio ad un tempo. Proprio come la sua chiamata, affascinante profezia che lui ascolta sempre con un certo timore e tremore: «Vedi come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto?» si sente domandare un anonimo bambino ne La fontana della vergine: «É come se avesse paura dell’ignoto. Eppure se si liberasse nell’aria, troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa, tremolante e inquieto. Con gli uomini capita lo stesso. Essi vagano inquieti come tante foglie al vento, per quello che sanno e per quello che non sanno. Tu… tu passerai su un ponticello stretto e malfermo, così stretto che non saprai dove poggiare il piede per sorreggerti. Sotto di te muggisce un fiume. È tetro e vuole inghiottirti, ma raggiungerai l’altra riva. Però ora, davanti a te, trovi un burrone. É così scosceso che non puoi vederne il fondo. Delle mani vogliono afferrarti, ma non ti raggiungono. Infine, di fronte a te, avrai un’orribile montagna. Il fuoco scaturisce dai fianchi. Crepacci orrendi partono dalle sue falde. Le fiamme sprizzano tutte insieme rame e ferro, vetriolo azzurro e giallo zolfo. Il basalto geme e si frantuma sotto il maglio dei fulmini. Intorno, atterriti, piccoli uomini fuggono, come mille formiche, perché quella fornace inghiotte gli assassini e i predoni. Ma nel preciso, esatto istante in cui ti senti perso, una mano ti afferra, un braccio ti circonda la vita e ti trasporta lontano, in salvo, dove il male non ha potere alcuno».
Il bambino de La fontana della vergine
Tuttavia, Ingmar conosce bene le insidie che la lingua dei sogni può tendere, là dove, anziché essere un varco verso la verità, rischia di peggiorare quell’estraniazione dalla realtà della vita cui lui vuole porre rimedio. La ricerca di Dio può essere un’avventura rischiosa, che non fa che produrre astrazioni: difatti, con la stessa audacia con cui accosta il malessere della psiche alla crisi della fede, Ingmar ha indagato il possibile legame tra mistica e follia. Ne sa qualcosa la Karin di Come in uno specchio (Såsom i en spegel, 1961), affetta da vera e propria schizofrenia: «La porta si è dischiusa» dice «ma il Dio che è entrato era solo un ragno. Si è avvicinato a me e io l’ho visto in faccia: un viso ripugnante e gelido».
Come in uno specchio
La sua speranza di trovarsi faccia a faccia col divino, di accedere alla sua visione, è rimasta frustrata: Karin si è solo imbattuta nella sua immaginazione, e vi ha scovato mostri terribili. Il che accomuna la sua fantasia agli effetti ultimi del limbo dell’estraniazione: del resto, nell’efficace descrizione che Antonius Block faceva del limbo in questione, parlava di «immagini di incubo, nate dai miei sogni e dalle mie fantasie». Non solo, ma la stessa lanterna magica (e con lei ogni arte) non è immune dal diventare un’arma a doppio taglio: lo testimoniano lo scrittore padre di Karin, i commedianti de Il settimo sigillo, la compagnia di Vogler ne Il volto, nonché le affermazioni esplicite del teatrante Oscar in Fanny e Alexander: «L’unico talento che io ho […] è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio. E, soprattutto, mi piacciono le persone che lavorano in questo mondo piccolo. Fuori di qui, c’è il mondo grande; e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo, riusciamo a dare a tutti coloro che vengono qui la possibilità, se non altro per qualche minuto […] di dimenticare il duro mondo che è là fuori». O, nelle parole di Emilie, sua moglie e attrice di professione: «Tu dici che il tuo Dio è il Dio dell’amore. Il mio Dio è così diverso. È come me: amorfo e intangibile. Io sono un’attrice: sono abituata ad indossare maschere. Il mio Dio indossa mille maschere. Non mi ha mai per davvero mostrato il suo vero volto, proprio come io non posso mostrare a te o a Lui il mio vero volto».
Emilie in Fanny e Alexander
Ma come distinguere allora la differenza tra quella “voce interiore” – che è anche, in qualche modo, “voce di Dio” – dalle fantasie e da quant’altro pulsa e ribolle dentro una persona? Tra tanti dubbi e interpretazioni, un suggerimento Ingmar lo ha trovato: «Credi in Dio?» domanda Nix a suo nonno in Lezione d’amore (En lektion i kärlek, 1954). «Sì, se per Dio intendi tutto ciò che è vita» è la risposta. «Credo in questa vita, nella vita eterna, in ogni tipo di vita». Afferma invece Isak Borg ne Il posto delle fragole: «Dov’è l’amico che il mio cuore ansioso cerca dovunque, senza aver mai riposo? […] La sua presenza è indubbia e io la sento in ogni fiore e in ogni spiga al vento». Gli fa eco la nuora Marianne: «L’aria che io respiro e dà vigore del suo amore è piena». «[…] Ho veduto l’amore da vicino» dice invece Don Giovanni ne L’occhio del diavolo. «E lo ritiene un dono raro?» gli chiede Britt Marie. «Eccezionalmente raro. I mortali capaci di amare sono in numero ristretto e la loro sofferenza è grande. Pare che essi siano vicini a Dio, che siano il suo specchio e riflettano la sua luce e rendano la vita sopportabile agli altri che brancolano nel buio […]. Io in verità non ne so niente. Io ho scelto un’altra strada. Quella strada che si chiama disprezzo e indifferenza».
L’occhio del diavolo
La differenza tra l’uomo ridestato e l’uomo dormiente è dunque anche questa: coloro che vivono per davvero, sono coloro che amano. Rifiutare l’amore, per Ingmar, significa rifiutare la vita, entrare a far parte del consesso dei morenti. Ciò significa che non è solo il silenzio di Dio a compromettere la relazione tra Lui e l’uomo: esiste anche un silenzio dell’uomo, che è la sua resistenza ad amare e farsi amare. L’amore «è uno stato di grazia. Coloro che sono in tale stato, spesso non sanno di essere tra gli eletti. L’amore esercita la sua influenza attraverso le loro azioni, così, in modo naturale, come fa la rosa col suo profumo o l’usignolo col suo canto» (L’immagine allo specchio). È da queste persone, da questi «eletti», che dipende lo stato di salute dell’umanità attorno a loro. “Ridestati” o “eletti” sono sinonimi.
L’immagine allo specchio
Ma non c’è elezione che non faccia tremare le gambe: difatti, «la loro sofferenza è grande» afferma Ingmar. Ogni risveglio, ogni (ri)nascita, è accompagnata dal dolore, sia per l’eletto, sia per chi entra a contatto con lui, venendo risvegliato a sua volta: «Ti porti dentro pensieri terribili. È quasi penoso starti vicino, e al tempo stesso attraente» sussurra l’enigmatico Ismael ad Alexander (Fanny e Alexander). Ismael si è accorto che Alexander ha sentito l’appello del destino, e che prova timore di fronte alla grandezza cui è chiamato. Perciò prende Alexander tra le sue braccia: bisogna aiutarlo a prendere la via degli eletti. Alexander è troppo prezioso per andare perduto.
Ismael e Alexander in Fanny e Alexander
L’abisso dell’opera bergmaniana non può certo venir esaurito da un articolo come questo. Né il saltare avanti e indietro nel tempo tra un film e l’altro può rendere ragione del percorso di una persona, che non è mai uguale a sé stessa ad ogni punto del cammino: al massimo, può individuare delle ricorrenze, tra l’una e l’altra delle quali Ingmar avrà senz’altro avuto ripensamenti, contraddizioni, idee ed esperienze mai del tutto chiarite. Il nostro scopo, per ora, è quello di una prima ricostruzione della sua posizione esistenziale, di cui le immagini filmiche non sono che una conseguenza. E poiché si tratta di immagini dense di simboli, di eventi e personaggi arcani, proprie di un uomo che non riesce ad arrendersi a quel che è stato definito il «disincantamento del mondo» – vale a dire la fine di ogni credenza in tutto ciò che è sovrannaturale –, immedesimarsi con l’uomo in questione non è impresa facile.
Ma è impresa che merita. Potremmo ritrovarci a far parte dei viventi anche noi.
Ingmar Bergman
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